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lunedì 5 ottobre 2015

La crisi post-moderna/1

Verum et Bonum

di Christophorus

Magritte - Decalcomania, 1966

Vogliamo proporre qualche considerazione filosofica e teologica in merito alla situazione culturale e antropologica nella quale ci troviamo a vivere. Tali considerazioni, sebbene abbiano una loro unità, verranno proposte in più fasi e porteranno il titolo di "La crisi post-moderna". 
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Guardando al momento contemporaneo, il processo di antropomorfizzazione, di cui lo stesso Nietzsche è artefice, a occhi leali, si rivela comunque irrisolto anche dopo la denuncia heideggeriana. Tale considerazione ci permette di fare due osservazioni, una a livello generale e metodologico (a), l’altra a livello più specificamente contenutistico (b), cioè riferita al tema poprio dell’antropomorfizzazione. 

a) Verum et Bonum 

Metodologicamente, il riconoscimento di questo stato di cose ci è obbligato per una lealtà nei confronti di ciò che l’esperienza rivela. Il nostro intelletto, per conoscere qualcosa, è costretto a passare attraverso il dato esperienziale e sensibile: è esperienza comune che la mancanza, oppure l’uso monco o errato dei sensi comprometta la conoscenza[1]. Davanti ai dati derivati dall’esperienza siamo chiamati a un atteggiamento di lealtà, affinché si possa raggiungere una conoscenza vera e razionale. Tale comportamento è una responsabilità, nel senso di un utilizzo della libertà che sceglie di arrendersi alla notizia che l’essere offre di sé nell’esperienza.

È per questo motivo che i medievali tra i trascendentali dell’essere riconobbero in sinergia tra loro il Verum e il Bonum (i trascendentali relazionali). Essi emergono dal rapporto d’identità dell’essere con il pensiero nell’atto conoscitivo compiuto dal soggetto, il quale, infatti, instaura con l’oggetto intenzionato una relazione rispettivamente intellettiva (Verum) e volitiva (Bonum). Volontà ed intelletto fanno circolo nel momento in cui la prima sceglie un iniziale atteggiamento di passività per dare avvio a una relazione intenzionale che sia adaequatio rei et intellectus. Solo in seconda battuta la volontà sceglie un ruolo attivo di modificazione, durante il quale si intenziona l’oggetto conosciuto sempre secondo una bontà ontologica e non secondo l’appetibilità da parte della soggettività. Dal Verum dipende il Bonum, cioè riconoscere il bene è possibile solo conoscendo l’essere della cosa. Questa fenomenologia della sinergia tra intelletto e volontà, cioè del rapporto tra il Verum e il Bonum, tra l’atto teoretica e quello pratico, trova auterovole appoggio in Tommaso, nella Summa Theologiae, I, q. 16, a cui abbiamo già fatto riferimento. Dopo aver affermato che la verità è conformità fra intelletto e cosa (a.1); che la conoscenza della verità appartiene all’intelletto che forma il giudizio e che la verità è nella cosa in quanto è conforme alla propria natura (a.2); e, infine, che l’ente, il vero e il buono indicano la stessa realtà (a.2); l’Aquinate afferma che per appetire una cosa bisogna prima conoscerla, così prima sta il vero, poi il buono (a.4). Per Tommaso la volontà e l’intelletto si includono a vicenda quando, 
l’intelletto conosce la volontà, e la volontà muove l’intelletto a conoscere. […] Nell’ordine del desiderabile, il bene ha ragione di universale e il vero ha ragione di particolare; nell’ordine dell’intelligibile è l’inverso […]. Una cosa è concettualmente anteriore, perché considerata per prima dall’intelletto. L’intelletto innanzi tutto raggiunge l’ente; in secondo luogo conosce se stesso nell’atto di intendere l’ente; in terzo luogo conosce se stesso nell’atto di desiderare l’ente.  Perciò prima abbiamo la nozione di ente, poi la nozione di vero; finalmente la nozione di bene, per quanto il bene sia intrinseco alle cose[2]. 
Possiamo, dunque, aggiungere che è necessaria una moralità del soggetto. Egli è chiamato a scegliere (con un atto della volontà), di guardar e di arrendersi alla verità delle cose che gli si offrono perché, come diranno poi gli scolastici, operari sequitur esse [3]. Questo atto di epochizzazione su se stessi va effettuato ricordando, come fa anche Tommaso, ciò che afferma Aristotele: «definiamo il vero quando diciamo che è ciò che è o che non è ciò che non è»[4]. Con coloro che mancano di questa forma di moralità di fronte a ciò che appare così e non altrimenti, in modo necessario, secondo cioè l’originario del sapere, non ha neppure alcun senso dialogare. Queste persone, come dice Aristotele, «discorrono solo per amore di discorrere» e, poiché essi cadono nel soggettivismo e nel relativismo e negano i principi primi che danno significato alle parole stesse, il loro «discorso è costituito di puri nomi e di pure parole» [5].





[1] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 84, a.4. 
[2] Cfr. Ivi, I, q. 16, a.4. 
[3] L’espressione, utilizzata dalla scolastica, non si trova in Tommaso. Essa però traduce quello che più volte Tommaso afferma: il primato dell’esperienza attuale (l’essere o il modo d’esssere), sulla potenza (in questo caso, riferita al piano dell’agire). Quando deve descrivere la conoscenza dell’anima separata dal corpo (Cfr. Ivi, I, q. 89), Tommaso scrive: «Per eliminare questa difficoltà bisogna riflettere che ogni cosa opera soltanto in quanto è atto; perciò il modo di operare di operare di ciascuna cosa corrisponde al modo di essere della medesima. Ora è diverso il modo d’essere dell’anima quando è unita al corpo e quando ne è separata, sebbene resti identica la sua natura. / Et ideo ad hanc difficultatem tollendam, considerandum est quod, cum nihil operatur nisi inquantum est actu, modus operandi uniuscuiusque rei sequitur modum essendi ipsius. Habet autem anima alium modum essendi cum unitur corpori, et cum fuerit a corpore separata, manente tamen eadem animae natura » (Ivi, I, q. 89 a.. 4).
[4] Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 1, a.1.
[5] Aristotele, Metafisica, 1009a20.