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venerdì 5 febbraio 2016

L'entrata di Cristo a Bruxelles

James Ensor, Center Getty, Los Angeles, 1888
























di  Claudio Benvenuti 

 Ad essere sinceri, l’opera di Ensor è spiazzante. Se ne trova conferma indagandone il tormentato successo. Forse non è più da dirsi propriamente blasfema come giudicarono i critici del tempo. Più che irrispettosa di una bieca mentalità borghese fin-de-siècle è innegabile: il quadro offende.  Sì, c’è davvero il rischio di rimane feriti. Anche se ci si avvicina timidamente all’idea originaria dell’autore fiammingo, a più di un secolo di distanza, la denuncia suona ancora attuale.
 Una pungente ironia emerge nei colori accesi, nell’ammasso di svariati volti a tratti confusi nell’agitata dinamica di una massa in movimento. Persino il titolo sembra tradire una sottile presa in giro, Entrata di Cristo a Bruxelles. Ma dov’è Gesù? Non immediatamente, aiutati dall’ostentata aureola dorata, lo si scorge benedicente. Eppure è proprio il minuscolo Redentore il centro prospettico dell’enorme dipinto.
 Aguzzando la vista è facile accorgersi di un particolare interessante, Cristo è l’unico a non indossare una maschera. Tra l’ammasso di caricature descritte con colori vivaci, richiamanti le tinte sgargianti di una allegra ma sinistra sfilata cittadina, Gesù appare paradossalmente alieno dalla massa circostante. Ammutolito dal rumore della folla, dalla banda, dagli slogan, dalle grida, dalle pubblicità.
 Dove vuole arrivare Ensor con uno scenario tanto confusionario quanto inquietante? Se suscitano una istantanea piacevolezza le brevi pennellate nervose con cui il colore ha riempito la tela, se può trasmettere ilarità tale marasma di volti curiosi, una prolungata attenta osservazione muta la gradevole sensazione quasi in tensione allucinatoria.
 Un lieto evento si trasforma in un incubo. La prospettiva centrale riversa sullo spettatore la deforme massa eccitata. Gli sguardi dei soggetti - talvolta marcatamente ridicoli e tenebrosi - appaiono privi di ordine. In maggioranza sono clown, scheletri o maschere carnevalesche. È assente un serio criterio compositivo se non una struttura così elementare da sembrare banale. L’indistinto fondo del quadro, il principio del flusso umano si mescola a svariati e solo accennati simboli, bandiere ed edifici fino ad estinguersi in insignificanti puntini.

Ora si potrebbero tirare le somme. Sarebbe possibile concludere con consunte considerazioni storico-artistiche. L’originalità dell’opera può essere relegata ad una corrente antiaccademica quale l’espressionismo, inquadrando il linguaggio usato nel simbolismo. Oppure, si potrebbe leggere l’opera anestetizzandone il messaggio. Avvalendosi del contesto culturale di fine Ottocento, sfruttare il pennello dell’autore per celebrare il mito del progresso. Divincolandoci da un certo schematismo didattico, ipotizziamo un finale diverso dalle consuete analisi.
 Torniamo al principio della nostra brevissima riflessione. L’opera spiazza. Ad un cristiano può provocare un discreto e profondo fastidio. Cristo nella sua ascesa trionfante verso il Calvario sembra dileggiato dall’indifferenza di un popolo dimentico. Un macabro clima di festa. Il Redentore attorniato da una folla intenta a procedere decisa, violenta, disordinata, spensierata, impazzita. Figure inquietanti rivestite di morte o di falsità e rumorosamente distratte accompagnano Cristo al Golgota, alla manifestazione della sua gloria, all’evento salvifico dell’umanità. Ebbene, nell’opera di Ensor propongo di trovare riflessa proprio la nostra società, il tramonto di valori universalmente riconosciuti e portati a pienezza da un cristianesimo in grado di diventare cultura.
 Un certo pessimismo tradirebbe l’essenziale positività dello sguardo proprio al discepolo del Divin Maestro. Oltretutto, non sarebbe per nulla benefico alla Chiesa di oggi. Con gli occhi rinnovati del cristiano riguardiamo l’opera. Il cuore può cantare lo stupore. Pur nella difficoltà riconosce il Dio vicino. In una società che, se dimentica di Dio, può solo correre rapida verso il precipizio, Cristo non è assente. Gesù ci è prossimo. Nell’umiltà della cavalcatura, nella semplicità di una presenza discreta e al contempo centrale, il Messia emerge dal marasma umano.
 Non omettiamo, per amor di verità, una silenziosa autocelebrazione dell’artista. Ad una acuta osservazione si riscontrano i lineamenti di Ensor in quelli del Messia. Ciò non toglie, però, che nonostante tante maschere, risplende sempre il vero volto di Gesù.