Condividiamo con i nostri lettori
l’interessante scritto del Card. Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per
il Culto Divino, apparso sull’ “Osservatore Romano” il 12 giugno. Sintesi
esaustiva della costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, il presule
ribadisce con forza l’attualità del documento ma, soprattutto, sottolinea
l’urgenza di recuperare lo spirito che animava l’autentico e necessario
rinnovamento voluto dai padri conciliari.
Cinquant’anni
dopo la sua promulgazione da parte di Papa Paolo VI, si leggerà, infine, la
costituzione del concilio Vaticano II sulla sacra liturgia? La Sacrosanctum concilium non è di fatto un semplice catalogo di ricette di riforme, ma una vera e propria magna charta di ogni azione liturgica.
Il
concilio ecumenico ci dà in essa una magistrale lezione di metodo. In effetti,
lungi dall’accontentarsi di un approccio disciplinare ed esteriore alla
liturgia, il concilio vuole farci contemplare ciò che è nella sua essenza. La
pratica della Chiesa deriva sempre da quello che riceve e contempla nella
rivelazione. La pastorale non si può disconnettere dalla dottrina.
Nella
Chiesa "ciò che proviene dall’azione è ordinato alla contemplazione"
(cfr. n. 2). La costituzione conciliare ci invita a riscoprire l’origine
trinitaria dell’opera liturgica. In effetti, il concilio stabilisce una
continuità tra la missione di Cristo Redentore e la missione liturgica della
Chiesa. "Come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato
gli apostoli" affinché "mediante il sacrificio e i sacramenti attorno
ai quali gravita tutta la vita liturgica" attuino "l’opera di
salvezza " (n. 6).
Attuare
la liturgia non è dunque altro che attuare l’opera di Cristo. La liturgia è
nella sua essenza actio
Christi: l’"opera della redenzione umana e della perfetta
glorificazione di Dio" (n. 5). È Lui il grande sacerdote, il vero
soggetto, il vero attore della liturgia (cfr. n. 7). Se questo principio vitale
non viene accolto nella fede, si rischia di fare della liturgia un’opera umana,
un’autocelebrazione della comunità.
Al
contrario, l’opera propria della Chiesa consiste nell’entrare nell’azione di
Cristo, nell’iscriversi in quell’opera di cui egli ha ricevuto dal Padre la
missione. Dunque "ci fu data la pienezza del culto divino", perché
"la sua umanità, nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della
nostra salvezza" (n. 5). La Chiesa, corpo di Cristo, deve quindi divenire
a sua volta uno strumento nelle mani del Verbo. Questo è il significato ultimo
del concetto-chiave della costituzione conciliare: la participatio actuosa. Tale
partecipazione consiste per la Chiesa nel diventare strumento di
Cristo-sacerdote, al fine di partecipare alla sua missione trinitaria. La
Chiesa partecipa attivamente all’opera liturgica di Cristo nella misura in cui
ne è lo strumento. In tal senso, parlare di comunità
celebrante non è privo di
ambiguità e richiede vera cautela (cfr. Istruzione Redemptoris sacramentum, n.
42).
La participatio
actuosa non dovrebbe dunque
essere intesa come la necessità di fare qualcosa. Su questo punto
l’insegnamento del concilio è stato spesso deformato. Si tratta invece di
lasciare che Cristo ci prenda e ci associ al suo sacrificio.
La participatio liturgica deve perciò essere intesa
come una grazia di Cristo che "associa sempre a sé la Chiesa" (Sacrosanctum
concilium, n. 7). È Lui ad avere l’iniziativa e il primato. La Chiesa
"l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno
Padre" (n. 7).
Il
sacerdote deve dunque diventare questo strumento che lascia trasparire Cristo.
Come ha da poco ricordato il nostro Papa Francesco, il celebrante non è il
presentatore di uno spettacolo, non deve ricercare la simpatia dell’assemblea
ponendosi di fronte a essa come il suo interlocutore principale. Entrare nello
spirito del concilio significa al contrario cancellarsi, rinunciare a essere il
punto focale.
Contrariamente
a quanto è stato a volte sostenuto, è del tutto conforme alla costituzione
conciliare, è addirittura opportuno che, durante il rito della penitenza, il
canto del Gloria, le orazioni e la preghiera eucaristica, tutti, sacerdote e
fedeli, si voltino insieme verso Oriente, per esprimere la loro volontà di
partecipare all’opera di culto e di redenzione compiuta da Cristo. Questo modo
di fare potrebbe opportunamente essere messo in atto nelle cattedrali dove la
vita liturgica deve essere esemplare (cfr. n. 41).
Ben
inteso, ci sono altre parti della messa in cui il sacerdote, agendo in persona Christi Capitis,
entra in dialogo nuziale con l’assemblea. Ma questo faccia a faccia non ha
altro fine che condurre a un tête-à-tête con Dio che, per mezzo della grazia
dello Spirito Santo, diverrà un cuore a cuore. Il concilio propone così altri
mezzi per favorire la partecipazione: "le acclamazioni dei fedeli, le
risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti
e l’atteggiamento del corpo" (n. 30).
Una
lettura troppo rapida, e soprattutto troppo umana, ha portato a concludere che
bisognava far sì che i fedeli fossero costantemente occupati. La mentalità
occidentale contemporanea, modellata dalla tecnica e affascinata dai media, ha
voluto fare della liturgia un’opera di pedagogia efficace e redditizia. In
questo spirito, si è cercato di rendere le celebrazioni conviviali. Gli attori
liturgici, animati da motivazioni pastorali, cercano a volte di fare opera
didattica introducendo nelle celebrazioni elementi profani e spettacolari. Non
si vedono forse fiorire testimonianze, messe in scena e applausi? Si crede così
di favorire la partecipazione dei fedeli mentre di fatto si riduce la liturgia
a un gioco umano.
"Il
silenzio non è una virtù, né il rumore un peccato, è vero", dice Thomas
Merton, "ma il tumulto, la confusione e il rumore continui nella società
moderna o in certe liturgie eucaristiche africane sono l’espressione
dell’atmosfera dei suoi peccati più gravi, della sua empietà, della sua
disperazione. Un mondo di propaganda, di argomentazioni infinite, di invettive,
di critiche, o semplicemente di chiacchiere, è un mondo nel quale la vita non
vale la pena di essere vissuta. La messa diviene un baccano confuso; le
preghiere un rumore esteriore o interiore" (Thomas Merton, Le signe de Jonas, Ed. Albin
Michel, Paris, 1955, p. 322).
Si
corre il rischio reale di non lasciare alcun posto a Dio nelle nostre
celebrazioni. Incorriamo nella tentazione degli ebrei nel deserto. Essi
cercarono di crearsi un culto alla loro misura e alla loro altezza, e non
dimentichiamo che finirono prostrati davanti all’idolo del vitello
d’oro. È tempo di metterci all’ascolto del concilio. La liturgia è
"principalmente culto della maestà divina" (n. 33). Ha valore
pedagogico nella misura in cui è completamente ordinata alla glorificazione di
Dio e al culto divino. La liturgia ci pone realmente alla presenza della
trascendenza divina. Partecipazione vera significa rinnovare in noi quello
“stupore” che san Giovanni Paolo II teneva in grande considerazione (cfr. Ecclesia de Eucharistia, n. 6).
Questo
stupore sacro, questo timore gioioso, richiede il nostro silenzio di fronte
alla maestà divina. Si dimentica spesso che il silenzio sacro è uno dei mezzi
indicati dal concilio per favorire la partecipazione.
Se
la liturgia è opera di Cristo, è necessario che il celebrante vi introduca i
propri commenti? Ci si deve ricordare che, quando il messale autorizza un
intervento, questo non deve diventare un discorso profano e umano, un commento
più o meno sottile sull’attualità, o un saluto mondano alle persone presenti,
ma una brevissima esortazione a entrare nel mistero (cfr. Presentazione generale del messale
romano, n. 50).
Quanto
all’omelia, è essa stessa un atto liturgico che ha le sue proprie regole. La participatio actuosa all’opera di Cristo presuppone che si
lasci il mondo profano per entrare nell’"azione sacra per eccellenza
" (Sacrosanctum concilium, n. 7). Di fatto, "noi pretendiamo,
con una certa arroganza, di restare nell’umano per entrare nel divino"
(Robert Sarah, Dieu ou rien,
p. 178).
In
tal senso, è deplorevole che il sacrario delle nostre chiese non sia un luogo
strettamente riservato al culto divino, che vi si penetri in abiti profani, che
lo spazio sacro non sia chiaramente delimitato dall’architettura . Poiché, come
insegna il concilio, Cristo è presente nella sua parola quando questa viene
proclamata, è ugualmente deleterio che i lettori non abbiano un abbigliamento
appropriato che mostri che non pronunciano parole umane ma una parola divina.
La
liturgia è una realtà fondamentalmente mistica e contemplativa, e di
conseguenza fuori dalla portata della nostra azione umana; anche la participatio è una grazia di Dio. Pertanto,
presuppone da parte nostra un’apertura al mistero celebrato. Così, la
costituzione raccomanda la comprensione piena dei riti (cfr. n. 34) e al tempo
stesso prescrive "che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche
in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad
essi" (n. 54).
In
effetti, la comprensione dei riti non è opera della ragione umana lasciata a se
stessa, che dovrebbe cogliere tutto, capire tutto, padroneggiare tutto. La
comprensione dei riti sacri è quella del sensus
fidei, che esercita la fede vivente attraverso il simbolo e che conosce per
sintonia più che per concetto. Questa comprensione presuppone che ci si
avvicini al mistero con umiltà.
Ma
si avrà il coraggio di seguire il concilio fino a questo punto? Una simile
lettura, illuminata dalla fede, è però fondamentale per l’evangelizzazione. In
effetti, "a coloro che sono fuori essa mostra la Chiesa, come vessillo
innalzato di fronte alle nazioni, sotto il quale i figli di Dio dispersi
possano raccogliersi " (n. 2). Essa deve smettere di essere un luogo di
disobbedienza alle prescrizioni della Chiesa.
Più
specificatamente, non può essere un’occasione di lacerazioni tra cristiani. Le
letture dialettiche della Sacrosanctum
concilium, le ermeneutiche di rottura in un senso o nell’altro, non sono il
frutto di uno spirito di fede. Il concilio non ha voluto rompere con le forme
liturgiche ereditate dalla tradizione, anzi ha voluto approfondirle. La
costituzione stabilisce che "le nuove forme scaturiscano organicamente, in
qualche maniera, da quelle già esistenti" (n. 23).
In
tal senso, è necessario che quanti celebrano secondo l’usus antiquior lo facciano senza spirito di
opposizione, e dunque nello
spirito della "Sacrosanctum concilium". Allo stesso modo, sarebbe
sbagliato considerare la forma straordinaria del rito romano come derivante da
un’altra teologia che non sia la liturgia riformata. Sarebbe anche auspicabile
che s’inserisse come allegato di una prossima edizione del messale il rito
della penitenza e l’offertorio dell’usus antiquior al fine di sottolineare che le due
forme liturgiche s’illuminano a vicenda, in continuità e senza
opposizione.
Se
vivremo in questo spirito, allora la liturgia smetterà di essere il luogo delle
rivalità e delle critiche, per farci infine partecipare attivamente a quella
liturgia "che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la
quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede quale ministro del
santuario" (n. 8).