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lunedì 2 novembre 2015

Diario di un dolore

a cura di Claudio

Diario di un dolore
di C.S. Lewis
Adelphi edizioni, 1998
  Non raramente capita di imbattersi in un diffuso pregiudizio. In un contesto culturale sempre più secolarizzato e danneggiato da una informazione di massa spesso parziale nel comunicare i contenuti della fede cattolica, si diffonde la comune convinzione che la dimensione spirituale estranei l’uomo dall’integrale esperienza di vita. 
 La frammentazione esistenziale esperita dall’uomo contemporaneo, impegnato nel frenetico tentativo di ricomporre in unità i vari aspetti della vita senza riuscire ad adottarne criteri di sintesi, lo rende incapace di affrontare l’ineludibile momento della prova, della sofferenza fisica o interiore. Si ritrova incapace di individuare e vivere un orizzonte di senso davvero totalizzante. 

 La lettura di Diario di un dolore di C.S. Lewis (1898-1963) è una splendida testimonianza di come la fede in Dio, intrecciandosi e accompagnando la vita dell’uomo, costituisca una sempre rinnovata occasione di rinascita, una fonte sempre accessibile di sano e reale ottimismo.
 Pubblicato nel 1961 con il titolo A Grief Observed (“Osservando un sepolcro”), raccoglie i quattro quaderni dell’autore su cui riporta gli stati d’animo, i pensieri, le sensazioni vissute a seguito della scomparsa della moglie Joy, dopo quattro anni di matrimonio.  
 Attraverso l’esperienza del lutto, Lewis acquista coscienza della progressiva trasformazione della sofferenza.

Se prima il dolore è vissuto solo come assoluto, raccontandolo e affrontandolo coraggiosamente, l’autore assume la consapevolezza che esso si ridimensiona continuamente, muta quanto il paesaggio tra le curve di una lunga vallata.
 Il Diario consente al lettore di percorrere i pensieri dell’uomo sofferente innanzi alla scomparsa della donna amata ed impegnato a cercare un posto per Dio nella dolorosa vicenda che sta affrontando. La particolare schiettezza utilizzata da Lewis nel parlare del Divino colpisce il credente.
 Lewis non si sottrae di fronte agli interrogativi della fede. In uno sfogo poi subito chiarito e ritrattato, arriva a paragonare il Divino ad un dentista, pronto a curare il bene dei suoi figli ma indifferente al dolore che provoca.
 Stupisce l’ammirevole obiettività con cui l’autore analizza i limiti del suo ricordo. Anche se la nostalgia e il vivo desiderio del ritorno dell’amata permane nel cuore, non si esime da dichiarare l’influenza crescente dell’ io nella memoria di lei, tanto da accorgersi della scomparsa del «sapore aspro, mordente, purificatore della sua alterità». L’autore rifiutando con forza di poter ridurre il ricordo della moglie ad un’immagine della mente, poiché sottomessa all’arbitrarietà e ai mutevoli stati d’animo, preserva l’alterità dell’amata, nonostante la separazione fisica imposta dalla morte.
 Leggendo il Diario si percepisce la già suddetta evoluzione del dolore. Non più inteso come assoluto e localizzato, la coscienza della sua assenza viene associata all’estensione del cielo comprendente ogni cosa, anche il rapporto con chi incontra, amici e conoscenti spesso palesemente imbarazzati nel non sapere se affrontare o meno l’argomento.
 Ritorna ancora pressante la necessità di una fede salda. Lewis scopre che quest’ultima è messa alla prova e con serenità si rende cono di doverla fortificare perché nella difficoltà la ritrova debole, insicura. Insieme all’esigenza di ritrovare la sua amata nella purezza di un ricordo privo di minima traccia di egoismo, emerge con forza il bisogno di Dio, spogliato di qualsiasi sovrapposizione. Cristo e solo Cristo, lei e solo lei. Non un’idea falsata, non una semplice fotografia. 

«Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli. Voglio H., e non qualcosa che sia simile a lei. Una fotografia veramente bella potrebbe alla fine diventare una trappola, un orrore, e un ostacolo.Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così diffuse (non fa differenza che siano dentro o fuori la mente, ritratti e statue oppure costrutti dell'immaginazione). Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è un'idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso a farlo. Lui, il grande iconoclasta. Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza? L'esempio supremo è l'Incarnazione, che lascia distrutte dietro di sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono “offesi” dall'iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa accade nelle nostre preghiere private.Tutta la realtà è iconoclastica. L'amata terrena, già in questa vita, trionfa incessantemente sulla semplice idea che abbiamo di lei. E noi vogliamo che sia così: la vogliamo con tutte le sue resistenze, i suoi difetti, la sua imprevedibilità. Ossia, nella sua realtà solida e indipendente. Ed è questo, e non un'immagine, o un ricordo, che dobbiamo continuare ad amare, dopo che è morta.“Questo”, però, non è immaginabile ora. H. e tutti i morti sono, in questo senso, simili a Dio. In questo senso amarla è diventato, nella sua misura, come amare Lui.Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H. Sì, e anche non la mia idea del mio prossimo, ma il mio prossimo. Forse che non facciamo spesso questo errore con chi è ancora vivo, con chi è accanto a noi nella stessa stanza? Rivolgendo le nostre parole e le nostre azioni non all'uomo vero ma al ritratto, al riassunto, quasi, che ne abbiamo fatto nella nostra mente? E bisogna che lui se ne discosti in modo radicale perché noi arriviamo ad accorgercene. Nella vita reale (è una delle differenze tra la vita e i romanzi) le sue parole e le sue azioni, a osservarle bene, non sono quasi mai “in carattere”, ossia, non rientrano in ciò che chiamiamo il suo personaggio. Nella sua mano c'è sempre una carta di cui non sapevamo nulla.Ciò che mi fa supporre di comportarmi in questo modo con gli altri è il vedere quante volte gli altri si comportano palesemente in questo modo con me. Ci illudiamo tutti di conoscerci l'un l'altro a menadito.» (pag. 74-76)