«Ero per
loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia»
(Os 11,4)
di Francesco Andrighetti
L’uomo è un amante perché è amato. L’essenza dell’uomo,
il suo bisogno viscerale di amare, ha origine da quell’atto d’amore che ne
decide il suo camminare nell’essere. All’origine dell’uomo, della sua vita, c’è
un essere amato dall’esterno: sempre e comunque amato. Qualunque siano le
nostre origini – ed esse sono sempre un mistero –, ciò che decide il nostro
esserci è un atto d’amore: generati dall’unione integrale di due umanità
differenti, comunque attesi e portati nel grembo, siamo il frutto di un grande
sacrificio e di un disumano dolore sopportabile da una donna solo perché pieno
di desiderio. Questa è la verità dell’uomo. Questa è la certezza che deve
rimanere per regolare la nostra capacità di autodeterminarci nella realtà. La
libertà dell’uomo deve fare i conti con questa verità: esiste una libertà, un
atto d’amore, fuori da una verità?
Quando questa verità profonda è sottovaluta
e dimenticata o, peggio ancora, confusa e nascosta, si può ancora parlare di un
uomo capace di compiere degli atti veramente umani, conformi alla propria
dignità, al proprio bene? Un uomo che non si conosce può ancora compiere sé
stesso? Potrebbe ancora la libertà implicarsi adeguatamente con la realtà?
Quale umanità può dirsi umana se è disposta a mercificare, dimenticare e
annubilare l’origine del proprio amare, del proprio essere amante? Può forse l’uomo
diventare uomo senza aver chiaro l’atto d’amore che sempre e comunque lo ha
portato ad affacciarsi sul mondo? Potrà ancora per tanto tempo una donna
compiere senza desiderio quel sacrificio d’amore che ci mette in vita? Si potrà
ancora parlare di un amante quando questi non sarà più il frutto dell’amore? Si
può davvero dividere, senza far danni, l’atto con cui si genera l’amante da un’amorosa
volontà di vita sull’amante stesso? Fino a che punto si potrà creare una
confusione sull’origine della vita umana?
La realtà non è tutta uguale. Solo una madre potrà
colmare l’eventuale assenza di colei che ci ha generato. Solo un altro ventre
femminile, fatto per accoglierci, potrà colmare l’assenza di colei che ci ha
sollevati alla sua guancia per la prima volta, mostrandoci l’Amore. Quale donna, tuttavia,
potrebbe colmare il grande dono della paternità? Non è forse questa primordiale
alterità maschile che ci “insegna a camminare tenendoci per mano” (Os 11,3) sul
lungomare mare del mondo verso la patria eterna? Non è forse una chiara
percezione dell’essenziale differenza dell’umanità, l’essere uomo o donna, che
permette di cogliere la verità di noi stessi? Oltre la differenza, solo Dio,
altrimenti, basta. Solo Lui, Amore trinitario e modello dell’unione tra l’uomo
e la donna, infatti, può colmare questa esigenza di verità. Nessun’altro. Nessuna
soluzione o sforzo umano. Egli solo può venire incontro alla povertà umana,
alla fragilità del nostro amore, consolando quella mancanza che talvolta appare
nelle vite degli uomini e nelle nostre famiglie. Nessuno può negare la realtà,
modificarla e pensare che non si distrugga, neppure Dio che ne è il creatore.
Questo è il mistero della libertà che abita l’Amore, quell’Amore che, pur di
lasciar essere, rinnega sé facendosi inchiodare sulla croce.
Quale umanità stiamo creando? Non si tratta di
giudicare l’uomo nella sua fragilità e nel suo errare negli affetti, ma di
aiutare a fare verità perché egli riesca a vivere una vita più bella. Il
cristiano, per grazia immerso nell’Amore, deve essere, per il mondo, memoria,
splendore della bellezza della verità. Ma come può il cristiano fare verità
sull’amore umano, sull’origine della vita e su ciò che lo tieni in piedi
specialmente nelle fasi più delicate dell’esistenza? Potrà forse una legge
umana salvare la famiglia? Basterà forse una battaglia tra piazze per salvare l’uomo
da sé stesso? Forse utile, ma sarà sufficiente? Subito dopo ci si dovrà
scontrare con l’inesorabile quotidianità e, un giorno, Dio non voglia, con
delle leggi umane che legittimeranno la totale distruzione dell’uomo amante.
Come fare? Torna alla mente Giovanni Paolo II, il 29 maggio 1994: «Ho
capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo Terzo Millennio […]
con la sofferenza, con l’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo
sacrificio. […] Perché in questo Anno della Famiglia? Appunto perché la
famiglia è minacciata, la famiglia è aggredita. Deve essere aggredito il Papa,
deve soffrire il Papa, perché ogni famiglia e il mondo vedano che c’è un
Vangelo, direi, superiore: il Vangelo della sofferenza, con cui si deve
preparare il futuro, il terzo millennio delle famiglie, di ogni famiglia e di
tutte le famiglie. […] Di nuovo devo incontrare questi potenti del mondo e devo
parlare. Con quali argomenti? Mi rimane questo argomento della sofferenza».
La famiglia, dunque l’uomo, si salverà solo con il sacrificio, la più alta
forma di testimonianza. Offrire la vita, la fragilità, il dolore, la fatica, la
giornata, il lavoro, gli affetti: solo con l’offerta di sé, la famiglia,
fondata sull’amore unico, indissolubile e potenzialmente fecondo tra l’uomo e
la donna, potrà essere ancora segno visibile dell’Amore di Dio e strada per il
compimento. Su imitazione di Cristo, l’offerta di ogni istante per la verità e
il bene della persona umana, dal suo concepimento fino alla morte, è il
martirio che oggi ci viene chiesto. Fare memoria dell’Amore, lì dove siamo,
quotidianamente: questo il compito del cristiano e il primo atto educativo verso
i più giovani, perché la Verità sull’uomo risplenda come un’alba per ogni cuore
amante che veglia il giorno della gioia vera.