Tra
pochi giorni ricorreranno centoquattro anni dalla tragedia del celebre Titanic. Naufragato durante la notte tra
il 14 e il 15 aprile 1912, l’inaffondabile
transatlantico partendo da Southampton doveva solennemente attraversare l’oceano
per raggiungere le rive statunitensi.
Un evento rimasto inciso nella memoria storica
mondiale. Annoverato tra i più clamorosi fallimenti nell’epoca d’oro
dell’esaltato progresso tecnologico.
Il nome attribuito alla gigantesca nave inglese, terza di tre sorelle simili in
qualità, richiamava evidentemente alla mitologia. Volendo identificarsi
superbamente tra i Titani del nuovo secolo, la celebre fama di infallibilità
dell’arduo progetto nautico celava una tragica sorte.
Nell’anno giubilare della misericordia può
essere interessante conoscere un capitolo poco noto della drammatica fine del Titanic. Edifica lo spirito sapere che l’impegno
eroico di tre sacerdoti cattolici - ospiti di seconda classe - permise a molti
passeggeri non solo di salvarsi dalle gelide acque dell’Atlantico ma consentì a
uomini, donne e bambini di morire in grazia di Dio.
Negli angosciosi momenti di terrore, disperazione,
disordine e ingiustizia umana, la fioca ma potente luce della fede in Dio
misericordioso risplendeva in quella fredda notte d’aprile. Padre Joseph Peruschitz,
quarantenne benedettino bavarese diretto verso gli Stati Uniti per dirigere una
scuola nel Minnesota; don Jouzas Mantvila,
sacerdote lituano non ancora trentenne in viaggio verso il Massachusetts
per assistere i numerosi connazionali e don Thomas Byles,
anglicano dalla prestigiosa formazione, laureato a Oxford, convertito al
cattolicesimo e parroco in un umile villaggio in Inghilterra nell’Essex,
diretto a New York per congiungere in matrimonio il fratello, furono i volti
della misericordia divina. Ognuno rifiutò con fermezza il posto offertoli nelle
insufficienti scialuppe di salvataggio. Dispensarono l’assoluzione sacramentale
ai passeggeri condannati a rimanere tra i ponti inclinati del transatlantico
tranciato dall’iceberg. Li assistettero con la preghiera preparandosi alla
morte cristiana.
È
oggettivamente complesso ricostruire con esattezza i momenti precedenti all’affondamento.
Le testimonianze permettono di cogliere la traccia indelebile di questi
ammirabili profili sacerdotali, la disposizione al sacrificio. Diedero prova di
saper rinunciare a mettere in salvo la vita per rimanere fedeli nell’obbedienza
estrema al sacerdozio ricevuto per
gli altri da esercitarsi fino alla dimenticanza e al rinnegamento di sé.
I passeggeri
sopravvissuti raccontarono che nei giorni prima del naufragio vennero officiate
quotidianamente le sante messe. Don Byles si fece donare da ricchi benefattori
un altare portatile insieme al necessario per celebrare. Con il consenso del
capitano, allestì una piccola cappella in un angolo della terza classe. Molti
passeggeri affidavano le umane speranze alla Divina Maestà assistendolo nel
Santo Sacrificio. Tra i tanti che affollavano l’ultima classe, in maggioranza
poveri operai con le loro famiglie, vi erano anche cristiani armeni e libanesi.
Fuggivano dal clima anticristiano delle terre natie, precedenti alle feroci
persecuzioni turco-musulmane, lo sterminio del popolo armeno che avrebbe avuto
principio a tre anni di distanza.
Il 13
aprile la cristianità festeggiava la Pasqua e il Lunedì dell’Angelo Thomas
Byles celebrò l’ultima messa. Quasi un presagio. Una signora superstite raccontò
che al momento dell’omelia trattò l’incombente minaccia del naufragio
spirituale del mondo sollecitando la necessità di aggrapparsi alla fede come ad
un salvagente, perseverando nella preghiera e nella frequenza ai sacramenti.
Nel
momento in cui tutti furono consapevoli di non assistere alle prove di
evacuazione della nave, ma ad un autentico pericolo, l’equipaggio insieme ai
preti cattolici cercarono di assicurare a donne e bambini un posto sicuro nelle
scialuppe. Padre Peruschitz si rivolse a chi si imbarcava nei mezzi di salvataggio con
profonde parole commoventi - probabilmente memorabili per i presenti - prima di
abbracciare la croce di Cristo.
Anche don Byles, scegliendo il martirio, circondato dai passeggeri che
cercavano il conforto della fede, li ordinò di passargli davanti per impartire
ad ognuno l’assoluzione in articulo
mortis. Essendo innumerevole la folla nella nave incrinata su un fianco, ormai
condannata all’imminente inabissamento, su tutti implorò il perdono divino
nell’assoluzione collettiva. Supplicò la protezione della Vergine Maria nell’ultima
agonia cominciando la recita del Santo Rosario. Dalle testimonianze dei
superstiti riparati nelle scialuppe ancora nei pressi della nave, in attesa di
soccorso, sappiamo che riuscì a terminare la preghiera mariana. Alcuni
raccontano di aver udito il canto del Salve
Regina intonato dai passeggeri radunati intorno a don Byles, tra i gemiti
degli agonizzanti, le grida dei feriti e i boccheggiamenti di chi sprofondava
affogando.
Il
fratello William e la sua sposa, in udienza dal Pontefice San Pio X, riferirono
la vita e le ultime ore del familiare levita. Papa Sarto, colpito dall’eroismo,
lo dichiarò «un autentico martire della
fede, per il rifiuto di salvarsi - salvando così altri - e un coraggioso
testimone del Cristo».
Un
noto adagio, inciso nella saggezza comune, vede nella morte di un uomo la
sintesi estrema della vita trascorsa. L’estrema testimonianza di donazione
totale offerta dai preti cattolici del Titanic
è il sigillo della luminosa fedeltà al Signore fino alla consumazione di sé.
I loro corpi non furono mai trovati e, se recuperati, non fu possibile
identificarli.