a cura di Marcus
Conclusione
K. Wojtyła, in un componimento
intitolato Canto del Dio nascosto, si
esprime così:
Quando
il mare rapidamente ti nasconde
e ti scioglie in abissi silenziosi
– la luce strappa bagliori
verticali alle onde languide
e il mare piano finisce,
affluisce un chiarore.
E allora, in ogni direzione,
negli specchi lontani e vicini,
vedi la tua ombra.
Come ti nasconderai in questa
luce?
Sei troppo poco trasparente
e il chiarore alita
dappertutto.
In quell’istante – guarda
dentro di te. Ecco l’Amico
che è solo una scintilla,
eppure è tutt’intera la Luce.
Accogliendo dentro di te
quella scintilla
non scorgerai altro,
e
non senti di quale Amore sei avvolto[1].
Chi meglio di San Giovanni Paolo II ha aiutato a rivelare la verità dell’uomo in Cristo? Per il Papa, nulla dell’uomo è esterno all’esperienza di fede e di sequela del Signore: tutto l’uomo cerca, tende, segue e ama Dio. Quest’umanesimo integrale, che ha attraversato tutto il suo pensiero filosofico e teologico, appare in modo particolarissimo anche nella sua produzione poetica risalente agli anni della giovinezza. Davanti alla dimensione drammatica dell’esistenza umana, alla scoperta della sua finitezza e dell’abisso del suo cuore, all’insondabile silenzio del mistero che egli è a se stesso e per gli altri, appare un’unica via di salvezza: calarsi nelle profondità della propria umanità e fare verità mediante quell’unico incontro che permette la rinascita dell’io. In un’intimità di agostiniana memoria è possibile incontrare quell’amico che come una scintilla di luce fa verità sul senso della vita. Cristo è quell’amico compassionevole che, una volta accolto, «svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2]. Non è un caso che Gesù stesso si definisca come l’amico e che chiami i suoi discepoli amici.
L’amicizia, più di altri
sentimenti tra gli uomini, è capace di dire il rapporto di amore fedele,
veritativo e liberante tra Cristo redentore e il discepolo. L’uomo cerca
l’amicizia perché ha bisogno dell’amicizia, in particolare con Colui che può
dare valore ad ogni amicizia umana. Essa, dunque, centro della dimensione
affettiva, svolge un ruolo centrale nella vita di ogni uomo, soprattutto nella
formazione del suo carattere personale. Giovanni Paolo II, nella sua prima
enciclica, insegna che l’uomo non può vivere senza tale l’amore che lo aiuta a
crescere e percorrere una via di santità:
Egli [l’uomo] rimane per se
stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli
viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e
non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo
Redentore – come è stato già detto – rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso.
Questa è – se così è lecito esprimersi – la dimensione umana del mistero della
Redenzione. In questa dimensione l'uomo ritrova la grandezza, la dignità e il
valore propri della sua umanità[3].
La relazione di amicizia, di
alleanza che ciascun uomo deve tessere con Dio passa attraverso il piano delle
relazioni orizzontali con i fratelli, similarmente a quanto accade per le opere
di misericordia verso il prossimo. In questo modo la carità e l’amicizia
costituiscono una mediazione che rende visibile la relazione personale e intima
con Dio[4]. Il
dialogo dell’uomo con Dio assume una pienezza di relazione che abilita la
persona ad esprimersi e a diventare un io reale concependosi assieme agli
altri. Questo sviluppo è comune in ogni persona e quanti non si lasciano
appassionare da questa ricerca rischiano di non esprimere appieno la propria
umanità.
L’amicizia sacerdotale è
necessaria per il singolo sacerdote poiché essa è manifestazione storica, umana
ed esistenziale di quella comunione oggettiva che è data dall’ordinazione
sacerdotale. La dimensione oggettiva della comunione, che abbiamo definito
agapica, diventa effettiva solo quando l’affettività del sacerdote, anche in
quella che abbiamo definito dimensione erotica, è totalmente coinvolta con dei
volti concreti e determinati di confratelli nel sacerdozio. Riferendoci alla Deus Caritas est di Benedetto XVI,
possiamo affermare che il sacerdote è chiamato ad amare come ama Dio nel quale
le dimensioni dell’amore sono in perfetta unione e sintonia, poiché non esiste
amore che non sia passionale e distaccato, elettivo e imparziale, soggettivo e
oggettivo, storico ed eterno, erotico e agapico, umano e divino.
Con tutta la sua dimensione
umana e storica, il sacerdote è chiamato ad amare la Chiesa, il presbiterio a
cui appartiene e Dio: ciò è possibile attraverso un atto di reale e di
effettiva amicizia.
Molti sono i preti che non
hanno legami significativi con i confratelli: l’autonomia e la sicurezza che,
in apparenza, offre lo stare soli, spesso può prevalere sul desiderio di una
comunione vissuta. Il legame che sussiste tra i preti non è di tipo funzionale,
ma è un vincolo sacramentale, che trova il suo fondamento nel sacramento stesso
dell’ordine, cioè nell’identità stessa del sacerdote: egli, infatti, con
l’ordinazione sacerdotale, è chiamato ad assumere la stessa umanità di Cristo
in tutte le sue dimensioni, in particolar modo quella affettiva.
[1] K., Wojtyła, Tutte le opere letterarie, 46–49.
[2] Concilio
ecumenico Vaticano II, Gaudium et
spes, 22.
[3] Giovanni Paolo
II, Redemptor hominis, 10.
[4] C. Foppa
Pedretti, Essere amici, 240.