Riprendiamo le nostre considerazioni su "La crisi post-moderna". Se nel primo step, dalla situazione odierna, abbiamo proposto alcune osservazioni "metodologiche" e gnoseologiche, ora vogliamo addentrarci maggiormente sulle conseguenza antropologiche di un certo modo di affrontare la realtà e la ricerca del vero.
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Uno sguardo leale al nostro presente, l’epoca post-moderna, ci autorizza ad affermare che il
processo di antropomorfizzazione, già annunciato da Nietzsche, si sta
rivelando – come
anche Heidegger aveva già denunciato, riferendosi al dominio della tecnica – un’operazione in ultima analisi contraria alla verità dell’umano. A sua volta, questo
processo pare determinato – sempre in accordo
con la lettura heideggeriana – dal discorso onto-teo-logico, che dice l’essere oggettivandolo e concettualizzandolo, riducendolo ad
ente. Tale denuncia, però, non sembra restituire ancora la totalità del problema. Per questo motivo, riferendoci al processo nichilistico di riduzione antropomorfica e
soggettivistica, preferiamo parlare di umanesimo disumano. Con questa espressione, il teologo
Henri De Lubac, in Il dramma dell’umanesimo ateo, affermò che: «L'umanesimo
esclusivo è un umanesimo disumano»[1].
Un umanesimo, nel senso di un’antropomorfizzazione, è
inevitabile nel senso in cui il rapporto che instauriamo con ciò che è altro da
noi non si
riduce ad una relazione intellettiva di adaequatio, ma determina anche una relazione
volitiva di modificazione/incidenza della/sulla realtà. L’antropomorfizzazione alla quale si sta facendo
riferimento, però, non può essere intesa come compimento dell’umano se finisce per escludere in modo ingiustificato
l’Eterno, e cioè
se elusivo dall’umano
stesso della domanda su Dio, la quale, implicitamente o esplicitamente, è all’origine di
qualsiasi esperienza umana. Una comprensione della realtà che riduce un dato
della vita così importante, arrivando a concepire la totalità come comprensiva solo del
piano immediatamente esperito, non può che essere frutto di una presupposizione arbitraria. Lo scetticismo, che ai prodomi della modernità si presenta come dubbio metodico, “esplode” poi nello gnoseologismo
kantiano e, con l’avvenire del post-moderno, rischia spesso di diventare
uno scetticismo
radicale e un’assolutizzazione
della volontà di potenza del soggetto a discapito di un effettivo riferimento
alla dimensione trascendente, che è oggetto anche della conoscenza per fede.
La fine della metafisica e la morte di Dio, annunciate da
Nietzsche, infatti, coincidono con la fine di un reale riferimento all’Assoluto
trascendente nella filosofia contemporanea, cioè con una concezione
immanentistica dell’Assoluto [2].
Nel Natale del 1953 De Lubac, nella prefazione alla sua opera, afferma:
Non è vero che l’uomo, come sembra talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero però che, senza Dio, non può alla fin dei conti che organizzarlo contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano. Del resto, la fede in Dio, quella fede che ci inculca il cristianesimo in una trascendenza sempre presente e sempre esigente, non ha come scopo di sistemarci comodamente nella nostra esistenza terrena per farci addormentare in essa […] siccome il destino dell’uomo è eterno, non deve fermarsi alla vita quaggiù. La terra, che senza Dio potrebbe cessare di essere un caos solo per diventare una prigione, è in realtà il campo magnifico e doloroso dove si prepara la nostra esistenza eterna. Così la fede in Dio, che nulla potrà mai strappare dal cuore dell’uomo, è la fiamma nella quale si conserva, umana e divina, la nostra speranza [3].
Il teologo francese precisa che l’ateismo di
Feuerbach, Marx e Nietzsche non sono delle forme di semplice ateismo, ma delle
forme di anticristianesimo, e aggiunge che:
Il bisogno di fare a meno di Dio, già manifestatosi nella generazione precedente, tormenta più che mai, dopo Nietzsche, alcune anime che non mancano certo di nobiltà e che sarebbero state le prime a respingere un ateismo volgare e soddisfatto. È proprio questo bisogno che ispira, per esempio, il pensiero di Dietrich Heinrich Kerler, il quale dichiara: “Anche se si potesse provare matematicamente che Dio esiste, io non voglio che esista, perché mi limiterebbe nella mia grandezza”. Neppure a un Martin Heidegger basta più negare Dio: gli occorre andare oltre una negazione, per eliminare più perfettamente ogni rischio di ritorno affermativo, rifiutando perfino che si ponga il problema di Dio [4].
Non dobbiamo stupirci quindi se in Husserl la
questione su Dio non è tematizzata in modo esplicito[5]. Anche il pensiero di Heidegger, come detto, volendosi liberare dell’approccio metafisico al problema di Dio, sfocia in
una fenomenologia ermeneutica del
sacro, perdendo un effettivo riferimento all’essere
trascendente e al Dio della fede, che
non può essere nominato in quanto tale [6]. La filosofia di Husserl e quella di Heidegger, quindi, paiono radicalmente
e dichiaratamente atee, e per questo incapaci di dare soluzione alla questione sull’umanesimo posta da Nietzsche.
La mancanza di una reale soluzione a questo
processo di decadenza può essere spiegata se si considera che la stessa
soluzione proposta è un’umanizzazione
disumana, cioè contraria all’essenza
dell’uomo, nella sua totalità. La
verità, proprio perché appare come risposta filosofica alla domanda sul valore
della vita, necessita non solo di una coerenza teoretica, ma anche di una corrispondenza con
la volontà[7].
La soluzione è disumana perché
esclude un reale riferimento all’oggetto propriamente metafisico, l’Assoluto (o Dio). Riguardo all’antimetafisicismo
contemporaneo Gustavo Bontadini, infatti, afferma:
Lo “scetticismo” contemporaneo è da un lato, senso di sfiducia – ereditato dalla vicenda storica […], non dominata con una comprensione della storia stessa – ma, dall’altro, volontà di un fine, che non si riconosce in nessuno di quelli, che sono compatibili con la presenza della metafisica. Questo secondo fattore ha tolto d’uso il termine scetticismo, che indicava ormai l’atteggiamento puramente negativo ed ancora puramente teoreticistico, sostituendo con altri che denotano invece la positività della nuova coscienza. Questa positività, però, è […] pertinente […] all’elezione del fine o alla libertà; […] non porta avanti altro che la mera negazione della metafisica […]. Codesta negazione si suol presentare come scoperta dell’autonomia, e quindi come senz’altro fornita di un aspetto positivo. Ma in realtà il positivo può baluginare solo in forza dell’equivoco, per cui quella autonomia oscilla, nello scegliere il suo soggetto, tra la ragione e l’uomo […]. Codesta ambiguità si riscontra in molti altri termini della coscienza contemporanea: come, per esempio, in quelli di immanenza e trascendenza[8].
[1] H.
De Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo, trad. it. A. Tombolino –
E. Brambilla – G . Cavalli, Jaca book
1992, p.13. Tale espressione è stata ripresa in forma leggermente differente
anche da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate al paragrafo
78: «[…] la chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza che
dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si
presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L’umanesimo che esclude
Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all’Assoluto può guidarci
nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile […]
salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento. È la
consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che sostiene nel faticoso ed
esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi e
insuccessi, nell’incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose
umane» (Benedetto XVI, Caritas in Veritate. Lo sviluppo umano
integrale nella carità e nella verità, in AA. VV., Enchiridion Vaticanum.
Documenti ufficiali della Santa Sede, testo latino a fronte, EDB, Bologna
2012, vol. 26, pp. 620-623.)
[2] Un’interessate
rilettura dell’ateismo di Nietzsche è proposta in E. Düsing, Sulla morte
di Dio in Nietzsche, trad. it di B. Faber, in “Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica”, 1 (2010), pp. 123-135.
[3] H. De Lubac, Il dramma dell'umanesimo
ateo, p. 13-14.
[4] Ivi, p. 49-50.
[5] Come già detto, non mancano
comunque tentativi di una lettura teologica del pensiero husserliano. Ad
esempio, Angela Ales Bello, afferma: «Si può notare che è messo tra parentesi
tutto ciò che trascende la dimensione immanente, quindi il criterio è quello di
non voler esaminare ciò che trascende e di non farlo agire nell’analisi. Fra le
trascendenze indicate c’è anche la trascendenza di Dio. Si è detto che
l’operazione della messa fra parentesi non è l’eliminazione di ciò che è
contenuto nella parentesi; si tratta solo di una sospensione momentanea in
vista di uno scopo, quello della chiarificazione della coscienza pur con i suoi
vissuti. Ad ogni messa fuori circuito si accompagna, però, anche la descrizione
di ciò che è sospeso e la nozione di Dio è sottoposta a una trattazione, tutto
sommato approfondita che fornisce linee di fondo del modo in cui Husserl
affronta in termini filosofici la questione di Dio» (A. Ales Bello, Edmund
Husserl. Pensare Dio - Credere Dio, Edizioni Messaggero, Padova 2005, p.
37-38). Per l’autrice Husserl affermerebbe l’impossibilità della conoscenza di
Dio mediante l’esperienza, ma sosterrebbe comunque un percorso
religioso-esperienziale. Una sintesi sulla presenza di una istanza teologica in
Husserl è proposta anche in A. Rigobello,
Dio nella modernità: Husserl,
in “Acta Philosophica",
3 (1994), pp. 271-286.
[6] Riguardo l’istanza teologica nel
pensiero di Heidegger rimandiamo a L. R.
OnÀate, Dio e la questione dell’essere in Heidegger, in “Acta Philosophica",
n. 3 (1994), pp. 287-313.
[7] Mi rifaccio a quanto Bontadini afferma nel Saggio di una metafisica dell’esperienza. Egli definisce «la credenza nella pensabilità effettiva (conoscibilità ) dell’essere […], “Postulato della razionalità del reale”» (G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, p. 29). E precisa: «chiamiamo questa credenza “Postulato della razionalità del reale” anziché della semplice conoscibilità, in quanto si suppone che essa conoscibilità non sia a caso, ma in grazia della costituzione stessa dell’essere e del posto che in essa è riservato all’uomo: la quale costituzione si troverà così a garantire il valore della vita sotto un aspetto fondamentale, quello costituito dal valore logico o conoscitivo, - epperò dovrà dirsi razionale» (Ibidem). Al Postulato sono legate due esigenze fondamentali: «La filosofia è governata da due esigenze, le quali, quantunque siano così strettamente congiunte nell’unità della filosofia stessa, che, venendo meno l’una di esse, verrebbe meno la filosofia stessa, di fatto sono tra loro antitetiche. Sono esse l’esigenza, che diremo dell’affermazione più sicura e quella, che diremo dell’affermazione più interessante. La prima vuole che tutto ciò che si asserisce sia dimostrato rigorosamente, senza di che, in luogo di filosofia, si avrebbe retorica: la seconda vuole che il discorso verta su ciò che supremamente interessa l’uomo (in universale) […]. Ora il Postulato della razionalità del reale sta appunto ad avvertire che l’una non meno dell’altra delle dette esigenze deve essere soddisfatta» (Ivi, 30).
[8] G. Bontadini, La metafisica classica e l’antimetafisicismo contemporaneo, in Id., Conversazioni di Metafisica. Vita e Pensiero, Milano 1971, vol. I, pp. 138-139.