a cura di Marcus
Celebre foto di Mario Giacomelli
Pavel
Florenskij scrive: «La potenza e la difficoltà dell’amicizia non si esprimono
in un pirotecnico atto di eroismo, ma nella placida fiammella della pazienza di
tutta una vita»[1]. L’esperienza
dell’amicizia è parte integrante della vita dell’uomo e fin dall’antichità ha
trovato spazio nei vari ambiti del sapere. La si ricerca perché si persegue la
felicità. Oggi giorno gli uomini sono sempre meno disposti a dedicare spazio e
tempo a tessere questa importante relazione.
La virtù dell’amicizia nell’uomo
Il dono del celibato nella vita del sacerdote
La virtù dell’amicizia nell’uomo
La persona umana è un essere in relazione. Per
realizzarsi deve necessariamente rapportarsi agli altri. L’uomo è una creatura,
non è in grado di bastare a se stessa, per esprimersi ha bisogno della
relazione con l’altro.
Il Prof. Antonio Malo, ordinario di
Antropologia filosofica e Psicologia, alla Pontificia Università della Santa
Croce, sostiene che nella società odierna si riscontra una sfiducia generale
non tanto nell’amicizia in sé, ma nella capacità del soggetto di poterla
realizzare. Lo stesso aggiunge, ancora, che ciò è la conseguenza della
svalutazione della persona in quanto tale.
Per poter parlare dell’amicizia come di un
elemento necessario all’esistenza dell’uomo, occorre anzitutto esplicitare cosa
si intende con il termine necessario.
Certamente, l’elemento della necessità, in questo caso non va inteso come un
bisogno fisiologico; se l’urgenza di tali bisogni si esaurisce una volta che
vengono soddisfatti, per quanto riguarda l’amicizia, invece, avviene il
contrario. Fra due persone, una volta divenute amiche, il bisogno reciproco
diventa - l’uno per l’altro - elemento sempre più imprescindibile.
Quindi, l’amicizia fa parte della dimensione
essenziale dell’uomo, in quanto la persona ha bisogno di relazioni autentiche
per esprimersi. Rapporti positivi, costruttivi e davvero amicali.
L’origine
dell’amicizia non deriva dalla corporeità, come avviene nei legami che
intercorrono fra gli sposi o fra i genitori e i figli, dov’è fondamentale la
dimensione della sessualità e della consanguineità. Fa riferimento, invece,
alla partecipazione della stessa natura dell’uomo.
Conseguentemente a ciò, il legame di amicizia
- rispetto agli altri - è sempre proiettato verso ogni tipo di persona. Riprendendo
le parole di San Tommaso, si può affermare che, homo homini naturaliter amicus [2]. La persona è
sempre aperta all’amicizia fra i suoi simili. In essi può ritrovare un altro
io. L’imprescindibilità dell’amicizia supera l’ambito fisiologico-sociale e si
situa su un livello personale.
Riferendosi alla realtà personale, l’amicizia plasma
l’identità della persona stessa; ciò potrebbe sembrare contradditorio in quanto
suppone l’identità, favorendone la realizzazione.
Invece, la legge dell’integrazione afferma che
l’identità di una persona non è legata al numero di esperienze conseguite, piuttosto
al livello di raggiungimento dell’integrazione personale. La legge dell’origine
stabilisce che le relazioni quanto più sono mosse dalla libertà, tanto più
facilitano il formarsi dell’identità.
Ad esempio, se analizziamo le relazione
all’interno di una famiglia si comprende facilmente come siano spontanee. L’attualizzazione
di tali comportamenti avviene naturalmente, i genitori, i figli e i parenti non
vengono scelti.
Diverso è per l’amicizia, un rapporto
strettamente connesso all’identità personale, considerata sia dal versante
dell’integrazione che da quello dell’origine delle relazioni. Non si tratta di
una relazione necessaria. Ad essa non ci si può sottrarre, (come può essere
quella della figliolanza) ma si sceglie, sia la relazione sia il suo grado di
incisività.
Nel rapporto d’amicizia, l’altra persona può
essere accolta come valore in sé, priva di vincoli verso uno scopo perseguito a
prescindere da chi si abbia vicino (come può accadere per i colleghi di lavoro);
nell’amicizia, il rapporto non è imposto da fattori esterni la persona. Va
sottolineata, inoltre, la dimensione della scelta, l’altro non è dato, né viene
a porsi come vincolante, poichè si può accogliere o rifiutare.
La crescita d’identità personale avviene mediante
la condivisione con l’animo e favorisce il formarsi di una circolarità
perfettiva.
L’amicizia è somiglianza e non perfetta
identità. La differenza intercorsa fra le due persone ricopre un ruolo nevralgico
nel rapporto. È necessario che l’altro venga anche considerato come fine, come un altro se stesso. È
insufficiente l’instaurarsi di un rapporto fra due persone. Ciascuna deve
riconoscere nell’altra un secondo se stesso, amando per questa ragione. Non tutti
i rapporti, quindi, possono considerarsi amicizia.
Amando l’altro per se sé stesso, si crea una riflessività originante reciprocità.
Il dono del celibato nella vita del sacerdote
La castità perfetta e scelta liberamente è per
il prete o per il consacrato la risposta d’amore a Dio. Rende davvero libero il
cuore e permette di aumentare la carità. L’amore di Dio riempie la vita del
celibe consentendogli di diventare una testimonianza vivente delle parole di
Gesù.
«Al tempo della risurrezione, infatti, non si
prende moglie né marito, ma si sarà come gli angeli di Dio in cielo» (Mt
22,30). Il celibato è una condizione affettiva molto profonda coinvolgente
tutta la struttura della persona. Non consiste unicamente nella rinuncia all’attività sessuale. Per chi sceglie una così speciale relazione con Dio e con i
fratelli richiede, infatti, un cambiamento autentico e radicale.
La
scelta del celibato non è parte integrante della struttura costituzionale del
sacerdozio. Conseguentemente, non è richiesto per la natura propria, ma la «perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli, raccomandata da
Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosamente
abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata
considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale»[3]
Se si considera che Cristo dedicò tutta l’esistenza,
anima e corpo, alla realizzazione del ministero della riconciliazione, si
comprende come il sacerdote debba configurare tutta la vita a Lui, anche nella
scelta della verginità. Cristo si mantenne libero dalla dimensione carnale
delle relazioni per donarsi in pienezza al ministero. Si può comprendere, così,
come i sacerdoti ne debbano seguire l’esempio e come la compartecipazione al
mistero di Cristo trovi origine in Dio. Il celibato diviene, così, per chi lo accoglie
un dono gratuitamente concesso e ricevuto liberamente. Questo dono non esclude
la gioia e la felicità umana, ma presuppone una natura ben costruita. Esso è
volto a perfezionare l’umanità del prete quanto un matrimonio ben riuscito; non
si tratta di un no pronunciato di
fronte all’amore umano, ma un sì
totalizzante all’infinito amore divino.
In tal scelta, evidentemente la persona si
scontra con alcune difficoltà. Possono essere ricondotte a due ambiti: il primo
di natura affettivo-sessuale e il secondo comprendente le sollecitazioni
provenienti dalla società odierna.
Il celibe sembra essere impoverito nella sua natura. Certi psicoterapeuti ritengono,
infatti, che la scelta celibataria pregiudichi l’equilibrio psichico della
persona, mentre Maslow afferma che non è la continenza in sé ad essere un
problema; però, lo possono diventare le motivazioni che la accompagnano. Se il
celibato è avvertito come un rifiuto verso l’altro sesso, mancanza di fiducia
ed isolamento, allora vi saranno molto probabilmente delle conseguenze negative[4].
Accolto nel modo giusto, il dono del celibato non
solo non è motivo di solitudine ma è fecondo di compagnia ed amicizia.
Nella vita sacerdotale non è sinonimo di
inibizione del cuore, è un incentivo ad amare evitando un compiacimento
egoistico.
Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptor hominis insegna che «l’uomo non può vivere senza amore. Rimane per sé stesso un essere
incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato
l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa
proprio, se non vi partecipa vivamente»[5].
Il sacerdote dovrà essere un uomo ricco di
umanità come Cristo. Nella scelta celibataria ha nutrito profondo affetto
fraterno per le persone che incontrava, avvicinava e soccorreva.
Il Sommo Pontefice Pio XII nell’Esortazione
Apostolica Menti Nostre scriveva che
«per la legge del celibato, il sacerdote, ben lontano dal perdere la paternità,
la accresce all’infinito, perché egli genera figli, non per questa vita caduca,
ma per quella celeste ed eterna»[6].
La riduzione del celibato ad una legge
ecclesiastica è una interpretazione erronea dei testi del Magistero. È legge perché prima è necessaria
l’esigenza della configurazione a Cristo che il Sacerdote deve assumere nella totalità
della sua persona.
Negli Orientamenti
educativi per la formazione al celibato sacerdotale (1974) a cura della
Congregazione dell’educazione cattolica si chiarisce che la scelta del celibato
non compromette la maturazione affettiva del candidato al sacerdozio. Il
seminarista deve esprimere una manifestazione particolare della capacità di
amare. Il celibato per il regno è una modalità per esprimere l’amore ed è
realizzabile solamente da chi è in grado di integrarlo nella vita spirituale.
Nella Chiesa sono necessari uomini che sappiano affermare la realtà divina anche
attraverso la propria carne[7].
In forza della scelta
celibataria, il sacerdote si lascia conquistare interamente da Cristo ed è in
grado di tessere vere e profonde amicizie, fruttuose per la personale
maturazione affettiva, specialmente se crescono nella fraternità sacerdotale.
[1] P. Florenskij,
La colonna e il fondamento della verità,
446.
[2] Tommaso
D’Aquino, La Somma Teologica,
II–II, q. 114, a.2.
[3] Concilio
ecumenico Vaticano II, Presbiterorum
Ordinis, 16.
[4] B. Giordani, Aspetti psico–sociali del celibato nella
società odierna, 220.
[5] Giovanni Paolo
II, Redemptor hominis, in Enchiridion delle Encicliche 8/28.
[6] Pio XII, Menti Nostrae, in Enchiridion delle Encicliche 6/1819.
[7] M. Piacenza,
Presbyterorum Ordinis 50 anni dopo,
178.