Davanti alla
realtà, questa domanda di Pascoli accompagna l’esistenza di ciascun uomo e
di ciascuna donna sin dai primissimi anni di vita. E’ come una costante che
sostiene i momenti più belli come quelli più duri. È quella domanda di senso
che sostiene il camminare, il cercare, il vivere di tutti e di ciascuno. È
quella domanda di Dio davanti al mistero che ogni vita è. Nulla, anche se
talvolta non appare con evidenza, preme più di questa domanda. Il prete, nei confronti del suo fratello uomo, ha una duplice responsabilità
educativa: far emergere prepotentemente questa domanda di senso e aiutare nel
corso della ricerca. Il prete che in modo misterioso sta dentro ma anche
davanti alla comunità, è mosso da un’urgenza educativa. Egli, come ogni altro
educatore, è chiamato ad aiutare i più piccoli, i più giovani ad ascoltare il
cuore e a seguire questa domanda di senso.
Si parla spesso di “emergenza educativa”, ma cos’è l’educazione se non un far emergere le potenzialità, la verità e i desideri più profondi di ciascuno e di tutti? Educare significa far emergere il grido profondo di senso, di felicità e di verità che c’è in ciascun uomo sin dal primo istante. La passione prima dell’educatore è la passione per il cuore di coloro che gli vengono affidati, per il mistero che essi sono a se stessi e agli altri.
Ogni educatore, quindi anche il prete, è chiamato ad amare il destino e il cammino di coloro che ha difronte e che educa. Essere educati significa essere amati amare da un che ha deciso di amare, significa poter affermare che “d’ora innanzi quest’altra persona penserà alla mia felicità più che alla sua”. Pavese, davanti a ciò, domanda: “c’è qualcosa di più imprudente?”. Amare, cioè educare, è un rischio!
Educare è un’imprudenza perché ha la misura dell’amore, del sacrificio, dell’accettazione del fallimento, della libertà e del mistero che è l’altro. Si educa solo ciò che si ama. Per questo l’esperienza prima dell’educatore dev’essere quella dell’amore: solo se amati, se educati, se in cammino, è possibile amare, educatore, sostenere il cammino. E' necessario, innanzitutto, imparare ad amare, a lasciarsi toccare dall’Amore. Se manca questo, ogni sforzo educativo nei confronti dell’altro rimane vano, perché manca completamente di ciò che lo tiene in piedi: nessuno genera se non è prima generato. Un cammino pienamente umano e quindi anche di fede, personale è il primo atto d’amore che si può fare a coloro che si è chiamati a educare: solo chi intuisce che è amato, perdonato e tenuto in vita ogni istante da un Altro può educare.
Educare non significa dar forma, ma far emergere ciò che ciascuno è già, il mistero che ciascuno è. Per fare questo è necessaria pazienza, umiltà, sacrificio e soprattutto obbedienza e compassione per la realtà, per il mistero, per la vita di chi si educa. Compatire la realtà significa fare come Gesù che guardando dall’alto Gerusalemme pianse amaramente pensando alla tristezza e all’incapacità dei suoi cittadini di rispondere all’amore e alla gioia che gli stava per travolgere dalla croce. L’amore che il sacrificio di Cristo sulla croce ha rivelato è quell’amore che dovrebbe attraversare, spingere e sorreggere ogni educatore che vuole generare la vita. Tante fatiche nell’educatore vengono dal non obbedire alla realtà che s’impone nonostante i nostri schemi, le nostre difese, la nostra volontà di potenza cioè il nostro voler dar forma a ciò che forma già ha. Dove prevale lo schema, il nostro pensiero, il metodo sulla realtà e la presunzione di comprendere tutto e tutti sulla compassione per coloro che ci stanno davanti, sull’amore per il destino dell’altro, su una piena coscienza di sé come salvati, generati e amati che scaturisce unicamente dalla fede, vince la paura, l’insicurezza, la chiusura, l’insoddisfazione davanti al fallimento o alla libertà dell’altro, l’incapacità di accogliere la fatica e la diversità.
Più volte capita di vedere queste fatiche che nascono dal non aver chiaro il perché dell’educazione: si educa perché si ha cuore il cuore dell’altro, il destino dell’altro, la domanda di senso dell’altro. Aver coscienza di ciò è difficile per tutti: sacerdote, seminarista, catechisti, capi scout, animatori. Tutti dobbiamo crescere e forse siamo stati messi insieme, come una comunità educante in cammino, proprio per questo, perché, quali risposte si possono dare se non si ha chiara la domanda che ogni cuore protesta?
Si parla spesso di “emergenza educativa”, ma cos’è l’educazione se non un far emergere le potenzialità, la verità e i desideri più profondi di ciascuno e di tutti? Educare significa far emergere il grido profondo di senso, di felicità e di verità che c’è in ciascun uomo sin dal primo istante. La passione prima dell’educatore è la passione per il cuore di coloro che gli vengono affidati, per il mistero che essi sono a se stessi e agli altri.
Ogni educatore, quindi anche il prete, è chiamato ad amare il destino e il cammino di coloro che ha difronte e che educa. Essere educati significa essere amati amare da un che ha deciso di amare, significa poter affermare che “d’ora innanzi quest’altra persona penserà alla mia felicità più che alla sua”. Pavese, davanti a ciò, domanda: “c’è qualcosa di più imprudente?”. Amare, cioè educare, è un rischio!
Educare è un’imprudenza perché ha la misura dell’amore, del sacrificio, dell’accettazione del fallimento, della libertà e del mistero che è l’altro. Si educa solo ciò che si ama. Per questo l’esperienza prima dell’educatore dev’essere quella dell’amore: solo se amati, se educati, se in cammino, è possibile amare, educatore, sostenere il cammino. E' necessario, innanzitutto, imparare ad amare, a lasciarsi toccare dall’Amore. Se manca questo, ogni sforzo educativo nei confronti dell’altro rimane vano, perché manca completamente di ciò che lo tiene in piedi: nessuno genera se non è prima generato. Un cammino pienamente umano e quindi anche di fede, personale è il primo atto d’amore che si può fare a coloro che si è chiamati a educare: solo chi intuisce che è amato, perdonato e tenuto in vita ogni istante da un Altro può educare.
Educare non significa dar forma, ma far emergere ciò che ciascuno è già, il mistero che ciascuno è. Per fare questo è necessaria pazienza, umiltà, sacrificio e soprattutto obbedienza e compassione per la realtà, per il mistero, per la vita di chi si educa. Compatire la realtà significa fare come Gesù che guardando dall’alto Gerusalemme pianse amaramente pensando alla tristezza e all’incapacità dei suoi cittadini di rispondere all’amore e alla gioia che gli stava per travolgere dalla croce. L’amore che il sacrificio di Cristo sulla croce ha rivelato è quell’amore che dovrebbe attraversare, spingere e sorreggere ogni educatore che vuole generare la vita. Tante fatiche nell’educatore vengono dal non obbedire alla realtà che s’impone nonostante i nostri schemi, le nostre difese, la nostra volontà di potenza cioè il nostro voler dar forma a ciò che forma già ha. Dove prevale lo schema, il nostro pensiero, il metodo sulla realtà e la presunzione di comprendere tutto e tutti sulla compassione per coloro che ci stanno davanti, sull’amore per il destino dell’altro, su una piena coscienza di sé come salvati, generati e amati che scaturisce unicamente dalla fede, vince la paura, l’insicurezza, la chiusura, l’insoddisfazione davanti al fallimento o alla libertà dell’altro, l’incapacità di accogliere la fatica e la diversità.
Più volte capita di vedere queste fatiche che nascono dal non aver chiaro il perché dell’educazione: si educa perché si ha cuore il cuore dell’altro, il destino dell’altro, la domanda di senso dell’altro. Aver coscienza di ciò è difficile per tutti: sacerdote, seminarista, catechisti, capi scout, animatori. Tutti dobbiamo crescere e forse siamo stati messi insieme, come una comunità educante in cammino, proprio per questo, perché, quali risposte si possono dare se non si ha chiara la domanda che ogni cuore protesta?